Articolo scritto dalla Dr.ssa Elena Cernuschi
Ciascuno di noi ha presente che cosa significhi provare ansia: c’è chi l’ha sperimentata a scuola, chi a un esame universitario, chi a un colloquio di lavoro, chi in un momento delicato della vita….e chi nello sport!
In ambito sportivo, spesso l’ansia compare con l’approssimarsi di una competizione. Già qualche giorno prima, al pensiero della gara imminente, molti atleti sperimentano la comparsa di alcuni segnali fisici e cognitivi, come il nodo allo stomaco, tensione muscolare, difficoltà a prendere sonno, preoccupazione e timore che la prova non abbia buon esito.
Poco prima della gara stessa, questo stato mentale spesso raggiunge il proprio apice: alla partenza, il cuore accelera, si percepiscono tremori, nausea, sudorazione elevata, battito cardiaco accelerato e difficoltà a concentrarsi. Tante volte, l’ansia arriva a compromettere il buon esito della prestazione e porta lo sportivo a sentirsi ancora più deluso e affranto di fronte al proprio insuccesso.
1. Provare ansia è sbagliato?
No: è un falso mito che gli atleti di successo non ne provino, o che per gareggiare bene sia necessario estinguerla. Sebbene sembri controintuitivo, l’ansia di per sé è uno stato utile e adattivo, che serve al nostro organismo per attivarsi e allertare tutte le proprie risorse psichiche e fisiche, utili ad affrontare con successo la sfida che si pone.
Senza ansia, saremmo poco reattivi e meno lucidi e la performance sarebbe sicuramente inferiore rispetto al nostro potenziale.
2. L’ansia va eliminata?
È errato il pensiero che sia necessario eliminare l’ansia, o evitare di provarla. Anzi, un’ambizione di questo tipo, oltre a essere non reale, è anche controproducente: il rischio è che oltre a provare l’ansia per la gara, si sperimenti anche la paura di provare ansia (segnale che si andrà male).
3. Quando l’ansia incide negativamente sulla performance?
È vero, ci sono dei casi in cui l’ansia, da “amica”, diventa “nemica” della gara. Ma quando? Secondo il modello di Yerkes e Dodson (1908), all’aumentare della nostra attivazione psico-fisica, la nostra performance aumenta, fino a raggiungere un picco, oltre al quale la prestazione decade, secondo una curva “a campana”. Tradotto: sentirsi attivati è utile, ma quando siamo “troppo” in allerta, non riusciamo a fare bene.
Dove si trova questo picco? Come mai, di fronte a una stessa situazione, alcune persone si allertano facilmente e altre no?
Il punto di “funzionamento ottimale” che un atleta ha è soggettivo.
Secondo il modello delle Zone Individuali di Funzionamento Ottimale (Individual Zones of Optimal Functioning; IZOF) proposto da Hanin (1978, 1997 2000, 2003) ogni atleta possiede la sua zona ideale di “ansia” in cui riesce a realizzare prestazioni ottimali.
Ad alcuni sportivi basta poca attivazione per ottenere il picco, mentre altri necessitano di livelli elevati di attivazione per ottenere il picco.
4. Come regolare l’ansia per rientrare nella “zona di funzionamento ottimale”?
La prima cosa da fare, è identificare a quale livello di attivazione si dà il proprio massimo, e come ci si sente generalmente prima della competizione. Si è già nella propria zona di funzionamento ottimale, o bisogna arrivarci? Se la seconda, è necessario aumentare o ridurre la propria attivazione? In entrambe le situazioni, la psicologia dello sport mette a disposizione diverse tecniche per regolare la propria attivazione e costruire il proprio stato mentale ottimale per gareggiare: da tecniche di rilassamento, di mindfulness, di self-talk, routine e visualizzazione.
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