Articolo scritto dal Dr. Francesco Latini
Se siete arrivati fin qui, probabilmente siete rimasti anche voi affascinati dall’ultimo film di Mike Mills: C’mon C’mon. Se invece non lo avete ancora visto, vi consiglio di farlo prima di procedere con la lettura di questa recensione (assolutamente non esaustiva), che proverà ad esplorare alcuni temi di rilevanza psicologica sollevati dal film: https://www.youtube.com/watch?v=7mzushAOM88.
1. La storia, in breve
Johnny (Joaquin Phoenix) è un giornalista radiofonico, impegnato nella realizzazione di un documentario in cui dei bambini di diverse città degli Stati Uniti vengono intervistati sulle loro vite e su come immaginano il loro futuro. Dopo un giorno di lavoro particolare, Johnny trova il coraggio di risentire sua sorella Viv (Gaby Hoffmann), che non sente da quando loro madre – malata di demenza da tempo – li ha lasciati. Johnny viene a sapere delle difficoltà della sorella con il marito, affetto da disturbo bipolare, e si propone di aiutarla: conosce così suo nipote Jesse (Woody Norman) – un bambino di 9 anni molto sui generis – che lo accompagnerà in diverse località del paese, non senza difficoltà, per portare a termine il suo documentario. Il loro viaggio e la loro relazione diventano quindi l’occasione per riflettere su alcune tematiche esistenziali dalla forte pregnanza psicologica, il tutto rafforzato dall’uso di una fotografia in bianco e nero che rimanda all’essenziale e allo stato melanconico in cui versa il protagonista: come vivere la maternità (e la genitorialità)? Come ci si relaziona con un bambino? Come affrontare la malattia?
1.1 Come vivere la maternità (e la genitorialità)?
“Nella nostra cultura la maternità è il luogo in cui depositiamo – o piuttosto sotterriamo – la realtà dei nostri conflitti, la realtà di che cosa significa essere pienamente umani. Essa è il perfetto capro espiatorio per i nostri fallimenti personali e politici, per tutto ciò che c’è di sbagliato nel mondo, e che diventa per le madri compito (irrealizzabile, ovviamente) sistemare. Cosa stiamo facendo alle madri quando ci aspettiamo che portino il fardello di tutto ciò che è più difficile da contemplare su noi stessi e sulla società? Le madri non possono risolvere, ma stare in contatto con i più difficili aspetti di ogni vita pienamente vissuta. Perché mai dovrebbe spettare a loro presentare le cose in modo chiaro, innocente e sicuro?” [Madri: un saggio sull’amore e sulla crudeltà – Jaqueline Rose]
Qualche volta, nel mio studio (reale o virtuale), mi capita di incontrare persone profondamente preoccupate di come potrebbero crescere o di come stanno crescendo i loro figli. Alcune, addirittura, sono così terrorizzate dalla genitorialità che scelgono di non avere dei bambini: si sentono semplicemente inadeguate rispetto ai compiti che dovrebbero svolgere o di non riuscire a conciliare famiglia e carriera lavorativa. Si tratta di un tema che, per quello che ho potuto osservare, riguarda principalmente le donne e, probabilmente, ha a che fare (anche) con alcuni parametri biologici: gli uomini sentono di poter “rimandare” la questione anche ad un’età avanzata e quindi spesso la ignorano, le donne invece hanno più la percezione di una linea rossa da non superare per evitare problemi di fertilità.
È a loro che istintivamente ho pensato ascoltando la riflessione riportata sopra, una delle tante presenti nel film. Penso che dovrebbe interrogarci profondamente come professionisti della salute mentale: quanta attenzione viene data da noi ai primi istanti della vita e quanta poca ad altre fasi altrettanto importanti (per dirne una, l’adolescenza)? Quanta responsabilità viene tolta al soggetto che si plasma e data ad un Altro che, a vario titolo, lo avrebbe profondamente influenzato? È indubbio che il modo in cui siamo stati cullati, sostenuti, guardati, accarezzati, nutriti e confortati nei primi mesi della vita si iscrive nella carne influenzando il nostro modo di vedere e interagire con il mondo. Allo stesso tempo, però, credo che vi sia una eccessiva tendenza a caricare di responsabilità certe figure (in primis, la madre) rischiando di perdere il fuoco su tanti altri aspetti che giocano un ruolo nelle traiettorie di sviluppo dell’individuo.
Tutto è diventato trauma e il mondo interno delle persone sembra aver perso importanza: non dimentichiamoci però che già Freud, più di 100 anni fa, aveva evidenziato come spesso non sono (solo) dei traumi reali a determinare una personalità ma (anche) il mondo fantasmatico, le fantasie, che potremmo intendere come delle lenti di vario colore e capacità distorcente attraverso le quali il mondo viene filtrato.
Credo che Jaqueline Rose colga una verità importante quando scrive che alle madri è stato attribuito un fardello troppo pesante, una responsabilità eccessiva sulla buona o cattiva riuscita della società e dei suoi figli. E non stupisce allora che molte di queste scappino, ritardando il più possibile questa tappa della vita o arrivando persino a rinunciarci. Credo che questo fardello vada di pari passo con l’”evaporazione” del padre, una figura sempre più marginale nella nostra società e che in effetti viene anche messa in scena nel film, con l’espediente della malattia mentale.
Quindi, un primo passo per ridurre la paura verso la maternità è far leva sulla paternità: un figlio solitamente si fa in due e se anche all’inizio questo sarà – per sua natura – più legato alla madre, ciò non significa che il padre debba essere assente ma, anzi, il suo ruolo sarà quello di favorire un ambiente in grado di sostenere questo legame madre-bambino per poi, progressivamente, inserirsi come elemento di rottura. Nel film, in effetti, viene messo in scena questo: l’emergere di Johnny come figura paterna ausiliaria che, aiutando la sorella Viv nella gestione di Jesse, favorisce un’evoluzione personale in lui e nel nipote che altrimenti sarebbe stata impossibile.
In secondo luogo, già Freud scriveva che fare il genitore è un mestiere impossibile: quindi, mettiamoci serenamente l’anima in pace se ogni tanto sbaglieremo, non saremo all’altezza, falliremo in pazienza. L’importante è mantenere una capacità genitoriale “sufficientemente” buona (per citare un altro psicoanalista, Winnicott).
Da cosa dipende questa capacità? Per fortuna, in parte, possiamo attingere alle migliaia di padri e di madri che ci hanno preceduto e che ci hanno trasmesso le “istruzioni di base” per svolgere questo ruolo: molti sono spaventati dal non sapere cosa dovranno fare, cosa dovranno dire o come dovranno relazionarsi con il figlio che verrà… per fortuna, sarà qualcosa che sgorgherà in modo piuttosto naturale. Ma la biologia non esaurisce certamente la questione.
Per essere “sufficientemente” buoni sarà anche necessario aver fatto un lavoro psicologico sulla nostra coppia genitoriale interna, sull’immagine interiorizzata dei nostri genitori: come sono stati i miei genitori con me? Che tipo di educazione ho ricevuto? I valori in cui sono cresciuto sono importanti per me? Cosa tenere e cosa lasciare dei modelli di mio padre, di mia madre, del loro modo assolutamente unico e personale di danzare insieme per allevare i figli?
Sarà però anche necessario fare un lavoro sul nostro bambino interiore, sull’immagine che noi abbiamo del bambino che fummo. Che tipo di bambino siamo stati? Cosa ci ha fatto gioire della nostra infanzia? Cosa ci ha fatto soffrire? Siamo scesi a patti con le cose brutte che ci sono capitate? Siamo riusciti a perdonarci per gli errori commessi, o siamo ancora sul banco degli imputati? Che tipo di rapporto abbiamo con la debolezza, la dipendenza, la fragilità?
Infine, forse l’aspetto più importante, essere “sufficientemente” buoni significa essere in grado di creare uno spazio fisico e mentale per il bambino: preparare quindi un posto fuori (la cameretta, ad esempio) ma anche al nostro interno, togliere un po’ di attenzione su di noi per dedicarla ad un Altro che per un po’ non potrà pensare per sé stesso, aiutandolo così a pensare i suoi pensieri e le sue emozioni. Per iniziare a fare questo, sarà importante sognare il bambino che verrà, riflettere sul suo nome, sulle sue caratteristiche, e soprattutto farlo insieme, come coppia. Sarà quindi importante desiderare il bambino, attenderlo, in modo tale che la creazione di questo spazio avvenga in modo semplice e naturale.
A volte però un bambino arriva senza preavviso, senza averlo messo in conto. È la vita, fa parte del gioco. In questo caso il suo arrivo potrebbe essere più conflittuale del previsto, più carico di ambivalenze, in quanto la vita del genitore stava andando in tutt’altra direzione. Essere “sufficientemente” buoni, in questo caso, significa anche saper fare un buon lutto di quello che poteva essere ma che realisticamente non sarà. Sapersi reinventare. Sognare dei nuovi inizi. Sarà comunque cruciale questa elaborazione perché, se un bambino può tollerare tante mancanze e limiti dei genitori, non può uscirne psichicamente indenne se allevato senza amore (come sostenuto da analisti come Ferenczi).
1.2 Come ci si relaziona con un bambino?
Ovviamente non esiste una risposta unica a questa domanda, ma il film di Mike Mills mette molto bene in scena la “confusione delle lingue” che spesso c’è tra l’infanzia e l’adultità: la prima ingenua, genuina, curiosa, senza filtri; la seconda più disincantata, schermata, imbozzolata nei ruoli e nelle etichette. Il viaggio di Johnny e di Jesse è anche il tentativo di trovare un vocabolario comune, di costruire un ponte tra queste due realtà, di favorire uno scambio fertile tra le due: un’emotività più regolata in Jesse, un’emotività più espressa in Johnny.
Tra i numerosi episodi che descrivono la costruzione di questo nuovo equilibrio, un aspetto spesso dimenticato dai genitori di oggi sembra essere la lettura ad alta voce: in C’mon C’mon, troviamo spesso i protagonisti intenti nella lettura di opere (“The Bipolar Bear Family: When a Parent Has Bipolar Disorder”, “The Wizard of Oz”, ecc.) finalizzata non tanto a favorire una crescita cognitiva quanto piuttosto creare uno spazio affettivo e relazionale condiviso. Sempre più spesso, invece, al posto di questa buona pratica i genitori preferiscono lasciare i figli – da soli – a visionare del materiale proiettato da un dispositivo elettronico (smartphone, tablet, tv, pc…). Questo ha sicuramente il vantaggio di alleggerire il genitore e favorire una rapida regolazione affettiva del bambino grazie alla visualizzazione di video dai colori brillanti e musiche accattivanti specificamente realizzate per attirare la loro attenzione (come ogni genitore ben sa); tuttavia, quando questo diventa eccessivo, può avere gravi ripercussioni sullo sviluppo psichico successivo in quanto la mente sboccia e si articola in un contesto relazionale, di sintonizzazione e rispecchiamento emotivo, e non in un contesto autarchico, isolato.
1.3 Come affrontare il dolore?
“Per visitare il pianeta terra, dovrai nascere come un piccolo d’uomo. All’inizio, dovrai imparare ad usare il tuo nuovo corpo, a muovere le tue braccia e le tue gambe, a tirarti su in piedi. Imparerai a camminare e a correre, ad usare le tue mani per fare suoni e formare parole. Lentamente, imparerai a prenderti cura di te stesso. Ecco, è ancora tranquillo ma adesso i colori, le sensazioni e i suoni ti pervaderanno costantemente. Vedrai così tanti esseri viventi, piante e animali, oltre ogni immaginazione. Ecco, è sempre lo stesso, ma adesso tutto è in movimento, ogni cosa è sempre mutevole. Sarai immerso nel fiume terrestre del tempo. Ci sarà così tanto per te da imparare e così tanto per te da sentire, piacere e paura, gioia e delusione, tristezza e meraviglia. Nella tua confusione e delizia, dimenticherai da dove sei venuto. Crescerai, viaggerai e lavorerai. Forse, avrai dei figli, persino dei nipoti tuoi. Lungo gli anni, cercherai di dare un senso a questa vita lieta, amara, piena, vuota, in continua evoluzione nella quale sei. E quando arriverà il momento di ritornare alla tua stella, potrebbe essere difficile dire addio a questo mondo singolarmente bello.” [Star Child – Claire A. Nivola]
In C’mon C’mon il peso della vita è sempre presente, per quanto mai in modo gratuito e spettacolarizzato. Viene calato nel quotidiano, nella vita di ogni giorno. Nel corso del film, lo spettatore entra in contatto con le sofferenze legate alla malattia (demenza senile, disturbo bipolare), alla morte (di un genitore), al fallimento di una relazione sentimentale. Spesso giungono agli occhi dello psicologo persone spezzate, depresse, che non riescono più a gioire della vita e delle relazioni che gli stanno intorno, che progressivamente si ritirano in casa a seguito dei colpi più o meno duri che gli sono stati assestati. I motivi per i quali alcuni reagiscono in questo modo sono innumerevoli: predisposizione temperamentale, ambiente familiare, intensità dei traumi vissuti, mondo fantasmatico prevalente, ecc. Queste motivazioni andranno in alcuni casi indagate, esplorate ed elaborate attraverso un percorso psicologico, in modo da favorire una ripresa della vita del soggetto.
Credo comunque che questa ripresa sia almeno in parte legata alla riscoperta di un sentimento oceanico, cioè la sensazione di sentirsi dissolvere in qualcosa di più grande ed assoluto ed averne coscienza, e di una prospettiva cosmica, ossia la capacità di tirare su lo sguardo dal nostro ombelico e fare un passo indietro in modo da acquisire una visione più ampia, globale e distaccata rispetto a quello che ci sta succedendo, così da mettere le cose in una scala differente. Un esempio dell’assunzione di queste due “posture” mi sembra essere ben descritto nel passaggio sopra, tratto dal libro di Claire Nivola.
Si tratta di “posture” legate al vivere che non possono essere sempre mantenute: ci saranno momenti in cui tenderemo a ri-accartocciarci su noi stessi e pensare che il nostro piccolo giardino sia l’intero universo. L’importante è però saper recuperare, ogni tanto, queste posizioni. Un po’ come, dopo una lunga giornata in cui siamo stati seduti, troviamo il tempo per alzarci, sgranchirci e fare una passeggiata. Saper recuperare un po’ di resilienza rispetto ai rovesci della vita, un po’ come suggerisce Jesse: “Qualsiasi cosa pianifichi di far succedere, non succede. Capita qualcosa a cui non avresti mai pensato. E allora devi fare il tifo: C’mon, C’mon, C’mon, C’mon.”
Conclusioni
C’mon C’mon è sicuramente una gemma rara, che esplora con un ritmo lento e la delicatezza del bianco e del nero molte tematiche dell’essere umani: la vita, la morte, la malattia, la genitorialità. In questo articolo ho voluto soffermarmi su alcune tematiche psicologiche che spesso mi capita di incontrare nella pratica clinica. Stai attraversando un momento difficile? Prenota una sessione e inizia ora a risolvere i tuoi problemi, attraverso l’aiuto del Dr. Francesco Latini.