Articolo scritto dal Dr. Massimiliano Gabboli
1. Il Racconto
Kafuku Yūsuke è un famoso attore di mezza età che anni prima ha lasciato il cinema per dedicarsi completamente al teatro. Da allora ha l’abitudine di recarsi ogni giorno alle prove guidando la sua Saab 900 gialla cabriolet, perché nel tragitto in auto trova il clima ideale per ripassare la sua parte, ascoltando sul mangiacassette la registrazione dell’opera preparata per lui dalla moglie Oto. Questa consolidata routine viene sconvolta quando, in seguito ad un banale incidente stradale, Kafuku non solo risulta positivo all’alcol test, ma scopre di avere un’estesa macchia cieca all’estremità destra del campo visivo, causata da un glaucoma precedentemente non diagnosticato, e per questi motivi gli viene sospesa la patente.
Per non dover rinunciare ad un’abitudine per lui divenuta così importante, Kafuku chiede tuttavia al meccanico a cui ha portato a riparare la Saab, uomo in cui ripone la massima fiducia, di consigliargli un buon autista e questi, senza esitazione, gli raccomanda una persona che considera l’incarnazione stessa dell’affidabilità: Watari Misaki. Agli occhi di Kafuku, Misaki non solo è una donna, genere di cui ha spesso osservato le attitudini alla guida, elaborando una sua teoria che lo porta a diffidarne, ma ha un aspetto da ragazzina scappata di casa tutt’altro che rassicurante. Kafuku dovrà, tuttavia, ricredersi subito, constatando come lo stile di guida di Misaki sia talmente preciso e raffinato da compensare qualsiasi sussulto o irregolarità della marcia, dando al passeggero l’impressione di non essere neppure in movimento. Misaki è inoltre puntuale, attenta e poco incline alla conversazione: caratteristica particolarmente gradita al già di per sé molto silenzioso Kafuku.
Nei tragitti per e dal teatro si svilupperà quindi tra i due un crescente senso di confidenza, che permetterà loro di lasciarsi coinvolgere in una serie di dialoghi estremamente concisi, ma progressivamente più significativi, attraverso i quali arriveranno a raccontare l’uno all’altra aspetti molto personali della propria vita e delle proprie relazioni; quasi delle riflessioni espresse ad alta voce alla presenza dell’Altro in cui Kafuku si “lascerà guidare” da quella strana e ombrosa ragazza fino a raccontarle di come, dopo la morte dell’amata moglie Oto, gli sia rimasto un incolmabile senso di vuoto e mistero intorno ad un segreto che aveva scoperto, ma del quale non le ha mai parlato per timore che il portarlo alla luce del dialogo avrebbe irrimediabilmente rovinato l’“armonia” del loro amore anche se il non averlo fatto lo ha gettato nel dubbio di quanto avesse davvero conosciuto e compreso la donna della sua vita.
Con il suo stile conciso, metaforico ed evocativo; nelle misurate parole di questo breve racconto, Haruki Murakami ci offre uno scorcio di come in una rapporto, soprattutto in corrispondenza di eventi dolorosi, non solo possano crearsi quelle macchie cieche che riducono inconsapevolmente la capacità dei partner di vedere e comprendere l’Altro per come realmente è ma, paradossalmente, anche situazioni nelle quali, pur essendo consapevoli di un elemento che turba profondamente il loro legame, essi possono continuare a fingere la loro cecità per paura che portare alla luce la sofferenza per condividerla, piuttosto che arricchire la relazione, possa destabilizzarne l’equilibrio, danneggiandola irreparabilmente.
La morte, il nostro estremo limite naturale, che così spesso scotomizziamo (sic!) dall’orizzonte della nostra vita, sopraggiunge poi a interrompere la relazione, lasciando tutti i non detti come cicatrici permanenti: domande per cui non sarà più possibile ottenere una risposta, errori per i quali non sarà più possibile scusarsi né riparare, sensi di colpa che nessuno potrà più lenire.
2. Il Film
Sulla breve quanto evocativa trama del racconto di Murakami, Ryūsuke Hamaguchi costruisce un raffinato e complesso film di quasi tre ore nel quale non un’inquadratura, non una parola, né tantomeno una pausa o un silenzio risultano superflui.
Tale raffinatezza e complessità risultano dalla capacità del regista giapponese di sviluppare in tutta la sua pienezza ciò che nel racconto originario era appena tratteggiato, senza nulla aggiungere se non in termini di potenza espressiva: stratificando e intrecciando storie in cui gli interrogativi e i significati si amplificano riflettendosi da una all’altra come in una galleria degli specchi e dispiegando la narrazione attraverso un’ampia gamma di linguaggi: dal verbale all’iconico, dal gestuale al simbolico, dalla mimica al suono naturale; restituendo anche al silenzio ed al ritmo dell’eloquio quel potenziale comunicativo che è divenuto marchio inconfondibile della migliore cinematografia asiatica.
Le luci e le ombre dell’amore tra Oto e Yūsuke, che nel racconto emergevano solo attraverso le memorie di lui, ci vengono così mostrate nella prima parte del film: una specie di lungo prologo che ci sorprende quando vediamo scorrere i titoli di testa a 40’ dall’inizio. Come una malinconica Shahrazād, nella penombra della camera da letto, dopo l’amore, Oto racconta al marito una storia che al mattino non ricorderà più e che lui le riracconterà per intero mentre la accompagna al lavoro in auto. Quanto di lei c’è in questa e nelle altre storie che, riprendendosi dal lutto per la perdita della figlia, la donna ha iniziato a raccontare in uno stato quasi crepuscolare dopo aver fatto l’amore e che sono alla base del suo lavoro come sceneggiatrice? Quanto alludono alla segreta vita interiore di lei in cui Yūsuke non osa entrare, come se il farlo costituisse la violazione di un tabù, mentre l’evitarlo gli sembra della massima importanza per preservare l’“incanto” del loro amore? Oto cela inoltre un segreto che, anche quando Yūsuke lo scopre, continua a rimanere tale, perché lui non osa chiederle nulla e non avranno mai occasione di parlarne.
Eppure, Yūsuke di storie complesse e di linguaggi è un esperto: sa bene quanto l’interpretare certi ruoli faccia entrare l’attore in una dimensione da cui, al ritorno, non è più lo stesso; e anni dopo lo spiegherà a Takatsūki, primo attore della compagnia con la quale sta allestendo lo “Zio Vanya” di Anton Čechov, giustificando il fatto di averlo scelto per quel ruolo che sarebbe stato suo, perché non se la sente più di interpretarlo, anche se alla fine vi sarà costretto dalle circostanze. Dopo aver sperimentato per anni la rappresentazione di grandi opere teatrali europee tradotte in giapponese, proprio con la direzione di “Zio Vanya” sta inoltre mettendo in scena il suo esperimento più audace: far recitare attori provenienti da diversi paesi ognuno nella propria lingua madre ed una, che ha scelto come co-protagonista, in Suhwa, la lingua dei segni coreana. Il suo “metodo” consiste nel far ripetere e ripetere agli attori il copione, regolando alla perfezione il ritmo delle battute anche se non sono in grado di comprendere il significato delle parole pronunciate dall’altro, fino a quando fra di loro non si crea una sorta di “evento comunicativo” in cui è evidente la loro partecipazione emotiva alla scena al di là della comunicazione verbale.
Yūsuke, regista e attore, è peraltro un uomo estremamente conciso e concreto nelle sue comunicazioni, così come lo è la sua autista Misaki, ma il silenzio fra di loro non viene a porsi come un ostacolo alla comunicazione quanto piuttosto come il contesto capace di creare un tipo di ascolto in cui non si sentono vincolati alla formalità ed è perciò loro possibile comunicare ad un piano più profondo. Estranei, entrambi isolati nella loro sofferenza, sono però accomunati da un lutto irrisolto e dal senso di colpa e forse proprio per questo riusciranno ad aprirsi per condividere con l’altro ciò che li ha tormentati per anni, bloccando le loro vite.
Alla fine Misaki, con la semplicità della ragazza cresciuta nella deprivazione e nell’abbandono, riuscirà a dire al colto Yūsuke che l’ostacolo più grande che ci preclude la comprensione dell’Altro potrebbe essere non tanto l’insondabilità di un suo presunto mistero, quanto la nostra incapacità di accettarlo semplicemente per quello che è, compresi quegli aspetti che ci spaventano e/o ci fanno soffrire.
3. Come e quanto possiamo comprendere chi ci sta accanto ?
Le chiavi di lettura di un film complesso come Drive My Car sono moltissime e a testimoniarlo basterebbe leggere alcune delle numerose recensioni che ne sono state scritte tra la sua vittoria ai Golden Globe come miglior film in lingua straniera e gli Oscar 2022, ai quali è candidato in ben quattro categorie.
Dal mio punto di vista il suo maggiore pregio è tuttavia quello di mettere in scena con rara chiarezza alcuni aspetti della comunicazione e della relazione che nella loro semplicità possono sembrare banali, ma intorno ai quali ruota gran parte della nostra capacità di comprenderci l’un l’altro.
- Il silenzio può essere uno schermo dietro il quale ci nascondiamo o nascondiamo ciò che ci fa soffrire per non doverlo affrontare, ma in altra forma può essere l’atteggiamento con il quale smorziamo il rumore del quotidiano, dell’abitudine, del mondo intorno per disporci ad ascoltare con autentica attenzione ciò che l’Altro ha da dire su di sé.
- Seppure ogni relazione crea un legame fra individualità differenti che è naturalmente destinato ad una continua evoluzione, talvolta la paura che il cambiamento possa portare conseguenze indesiderate può ostacolare fino al blocco totale la comunicazione, generando conseguenze anche peggiori.
- Nel nostro stare in relazione dobbiamo sempre essere consapevoli che le persone che amiamo e con cui siamo in relazione hanno una sua individualità e mettere in conto che la nostra capacità di ascolto e comprensione, per essere realmente autentica può e deve spingersi fino all’accettazione ed all’accoglimento anche di quegli aspetti di lui/lei che violano le nostre aspettative, che non ci piacciono e/o che ci fanno soffrire. Non possiamo accettare l’Altro solo per quegli aspetti che collimano bene con i nostri ed ignorare o cercare di cambiare tutti gli altri; al contrario è importante conoscerli e condividerli nella relazione; starà poi a noi decidere cosa farne, se siamo disposti a proseguire la relazione in loro presenza o quale altra strada potremo prendere.
Se la mia prospettiva su questo film ti ha incuriosito ed ha stimolato il tuo desiderio di vederlo, sarò contento di aver potuto condividere con te la visione di un’opera che mi ha realmente affascinato; se invece ti riconosci in alcuni dei nodi relazionali a cui ho accennato e ti trovi in difficoltà ad affrontarli da solo/a, la psicoterapia può essere il luogo più adatto per parlarne con qualcuno.
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