Articolo scritto dal Dr. Simone Maffeis
1. Definiamo l’empatia
L’empatia può essere definita come il processo attraverso cui un individuo coglie lo stato affettivo di un altro, generando quindi in se stesso una rappresentazione interiore di tale stato, con la consapevolezza che la causa di esso risieda nell’altra persona.
Tale processo è, quindi, caratterizzato da due componenti, una cognitiva, che riguarda la comprensione di quanto stia provando o pensando chi ci sta di fronte, e una affettiva, che comporta la generazione di una risposta emotiva adeguata. Simon Baron-Cohen identifica queste due componenti come la fase del riconoscimento e la fase della risposta.
L’empatia è un elemento fondamentale per le nostre esperienze emozionali e le nostre vite sociali: cogliere gli stati affettivi dei nostri interlocutori ci consente di predire in una certa misura il loro comportamento, regolando di conseguenza il nostro.
Secondo l’ipotesi delle rappresentazioni condivise, l’osservazione di uno stato sensoriale, motorio o emozionale in un’altra persona attiva una rappresentazione corrispondente nell’osservatore. L’empatia si baserebbe dunque, almeno in parte, su circuiti neurali condivisi.
Questa capacità non si attiva però in egual misura per tutte le persone che incontriamo: per esempio, veder soffrire un nostro caro probabilmente ci colpirà e spingerà ad agire molto più intensamente rispetto alla sofferenza di uno sconosciuto, così come può darsi che in altre circostanze vedere l’altro in difficoltà non solo ci lasci indifferenti ma possa suscitare in noi un certo compiacimento. Numerosi sono i fattori che modulano questo processo: innanzitutto le caratteristiche dell’osservatore, della situazione contingente, di chi è oggetto dell’empatia e del tipo di relazione che intercorre tra i due.
2. Quali sono i fattori che modulano l’empatia?
Una prima classe di fattori modulatori delle risposte empatiche è quindi costituita dalle caratteristiche individuali.
Condizioni cliniche come l’alessitimia colpiscono nel profondo la capacità di empatizzare con gli altri. L’alessitimia è un disturbo per cui la persona che ne è colpita non ha autoconsapevolezza emotiva, e quindi non è in grado di identificare e descrivere le proprie emozioni, né di conseguenza quelle altrui: se l’empatia si basa per buona parte su rappresentazioni condivise, e prima ancora sull’autoconsapevolezza, la capacità di empatizzare sarà senz’altro inadeguata anche alla più comune delle situazioni sociali.
Altre condizioni cliniche, come i disturbi dello spettro autistico o determinati disturbi di personalità (su tutti, il disturbo antisociale), influiscono pesantemente sulla capacità del cervello di generare risposte empatiche.
Le donne, rispetto agli uomini, tendono inoltre a mostrare punteggi più alti nelle scale che misurano l’empatia (come riporta Baron-Cohen nel suo libro “La Scienza del male”), differenza che può essere almeno in parte spiegata in termini di differenti modelli educativi: l’educazione mirata alle donne tende a sottolineare maggiormente l’importanza dell’interdipendenza, mentre l’educazione maschile tende a dare maggior risalto all’indipendenza e a un maggior orientamento verso se stessi.
Potremmo definire contestuali i fattori di modulazione all’interno della seconda classe: la nostra valutazione della situazione e degli stati affettivi altrui, le nostre esperienze al riguardo e il nostro stato emotivo corrente hanno un ruolo importante nella generazione di una risposta empatica. Per esempio, trovarsi in uno stato di sofferenza per motivi propri mentre si assiste alla sofferenza di qualcun altro può ridurre l’attività dei circuiti neuronali associati alle risposte empatiche. Essere presi dal proprio dolore può, dunque, inficiare comprensibilmente, la capacità di accogliere dentro di sé lo stato emotivo delle altre persone.
Una terza classe di fattori modulatori riguarda le caratteristiche di chi è oggetto di empatia e più in generale la relazione che intercorre tra noi e l’altro individuo. Adottare la prospettiva di una persona amata che soffre, per esempio, accresce l’attività neurale in regioni cerebrali come la corteccia cingolata anteriore (ACC) e l’insula anteriore (AI), centrali.
Al contrario, osservare una persona che si è comportata in maniera scorretta con noi diminuisce l’attività nelle medesime aree. In uno studio di Singer e colleghi, i volontari (sia uomini che donne) si trovavano a giocare con due collaboratori, i quali potevano giocare lealmente o slealmente. Successivamente, i soggetti osservavano i collaboratori alla ricerca ricevere scosse alla mano destra. Sia gli uomini che le donne mostravano un incremento dell’attività in ACC e AI quando a soffrire era un collaboratore “corretto”. Quando invece ad essere sottoposto alla scarica era un collaboratore “scorretto”, negli uomini tale risposta cerebrale diminuiva sensibilmente. Non solo: a tale riduzione si accompagnava un aumento di attività nelle aree corticali associate alla ricompensa (nucleus accumbens, striato ventrale e corteccia orbito-frontale).
L’appartenenza a un gruppo rispetto a un altro può inoltre causa di differenti risposte nelle risposte empatiche.
Un’ingente mole di studi ha dimostrato come, di fronte alla sofferenza di un individuo appartenente a un altro gruppo etnico, la risposta empatica in termini fisiologici e di attivazione cerebrale possa essere significativamente minore rispetto a quella che avremmo di fronte a una persona che condivide la nostra stessa etnia. Per esempio, come riscontrato da Forgiarini e colleghi, la risposta fisiologica di osservatori bianchi è decisamente minore quando vedono soggetti neri soffrire rispetto alla sofferenza di altri bianchi. Questa ridotta reazione al dolore di individui di colore correla fortemente con i “bias razziali” (stereotipi e pregiudizi) di cui l’individuo è portatore.
3. Si interviene su due livelli
Stereotipi (generalizzazioni rivolte ai membri di un particolare gruppo sociale) e pregiudizi (reazioni emotive rivolte in maniera automatica agli appartenenti a un particolare gruppo sociale) sono importanti fattori di modulazione non solo dei meccanismi empatici, ma in generale anche delle relazioni tra persone appartenenti a gruppi differenti.
Questa differenza tra le risposte non è dunque un fenomeno universale e determinato a priori, ma dipende, oltre che da fattori personali, anche da variabili educative, familiari e culturali, su cui è possibile (ed auspicabile) agire per ottenere un effetto positivo sia a livello individuale che sociale.
“Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero.”
WILLIAM BUTLER YEATS
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