Articolo scritto dalla Dr.ssa Sara Zannoni
Questo articolo cerca di dare un’iniziale infarinatura di uno strumento molto interessante chiamato Enneagramma, ovvero un metodo antico di classificazione dei caratteri psicologici tramandato dalla cultura Sufi già a partire da moltissimi anni fa fino ai nostri giorni. In questo articolo ne parlerò attraverso la lente della psicologia della Gestalt, ovvero la terapia con cui lavoro.
Questa “mappa” dei tipi psicologici divide schematicamente le persone in 9 caratteri principali, o personalità, 3 per ogni area: l’area di emozione, l’area di pensiero e l’area di azione. Questo articolo spiegherà in termini semplici l’iniziale distinzione tra queste tre aree e il motivo per cui una persona potrebbe appartenere ad una di queste tre, proprio a partire dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby e dal tipo di attaccamento che si è venuto a strutturare nell’infanzia.
1. Cos’è l’Enneagramma
L’Enneagramma è una “mappa” che è rappresentata graficamente con un ennagono circoscritto in una circonferenza, in cui le 9 punte indicano i 9 caratteri principali.
Ogni carattere rappresenta la cristallizzazione e l’irrigidimento delle difese infantili che la persona ha sviluppato nel processo di adattamento precoce con l’ambiente, soprattutto con le prime figure di riferimento (con il/la caregiver), e ogni carattere si struttura attorno a un nucleo emozionale, ovvero la “passione” dominante, a un nucleo cognitivo, ovvero la “fissazione” dominante e ad un nucleo che riguarda la sfera degli istinti che regolano l’attività umana (istinto di conservazione, sociale e sessuale). Ogni persona riesce a identificarsi solitamente con una certa personalità e a capire, così, quali blocchi e quali trappole è chiamato ad affrontare durante la sua vita.
Più che una mera classificazione, l’enneagramma è un modello dinamico in cui ogni carattere racchiude in realtà le potenzialità di tutti gli altri, per cui, sarebbe desiderabile per ogni carattere, detto anche enneatipo, tendere all’esplorazione e all’espressione di tutte le possibilità comportamentali appartenenti agli altri numeri, così da riappropriarsi della sua totalità e per permettersi di avere molte più strade da percorrere, invece che intraprendere sempre le stesse, ormai logore e solcate.
3. Cosa è l’Attaccamento e come si esprime nelle tre aree: Emozione, Pensiero, Azione
Partendo dall’iniziale e fondamentale definizione di Bowlby, l’attaccamento è “ogni forma di comportamento che appare in una persona (in questo caso un bambino piccolo) che riesce ad ottenere o a mantenere la vicinanza a un individuo preferito (ovvero il caregiver, ciò colui che se ne prenda cura)”. L’attaccamento è una nozione più emotiva che cognitiva e riguarda l’innamoramento del bambino alla persona che lo nutre e lo protegge. È un costrutto chiaramente biologico ed evolutivo perché se il bambino non amasse e non volesse essere amato dal suo caregiver, dal quale dipende in tutto e per tutto, non riuscirebbe a sopravvivere.
L’attaccamento però non può essere mai del tutto sicuro, come si ipotizzava inizialmente, perché il caregiver non può essere costantemente e perennemente disponibile alle richieste del bambino. Per questo si andrà a creare un tipo di attaccamento che come un elastico, a volte farà avvicinare e a volte farà allontanare la dinamica tra bambino e il suo caregiver, tirato da una parte all’altra dalle due funzioni fondamentali del legame umano, ovvero vicinanza e separazione. Quindi, in modo abbastanza plausibile, la terapia della Gestalt ha collegato gli stili di attaccamento insicuro di Bolwby, quello disorganizzato, evitante e ambivalente, con i tre tipi di atteggiamento compensativo che i bambini, e poi gli adulti, usano per gestire la sofferenza causata da questo attaccamento ballerino.
In poche e spicciole parole, se da bambino hai avuto un attaccamento disorganizzato con il tuo caregiver, ovvero avevi riempito il vuoto e il dolore della sua non risposta ad un tuo bisogno affogando nella disillusione, credendo che la mamma (o il papà) non fosse niente di eccezionale e quindi non avesse tutta questa importanza rispetto alla tua sopravvivenza, facendolo diventare un tuo pari, svalutandolo e abbassando il tuo bisogno di lei/lui, sei probabilmente diventato un carattere controllante e quindi stanzi nell’area dell’Azione. Una persona di Azione si può rivedere in un* bambin* che rispondeva in modo disorganizzato ai comportamenti del caregiver, senza essere feriti dalla mancanza di attenzione dell’adulto e che cercava nel mondo esterno e nei suoi comportamenti il modo di affrontare dolore e frustrazioni. Oppure gestiva le frustrazioni cercando di diventare come l’interlocutore o, nella maggior parte dei casi, cercando di far diventare tutti il più possibile uguale a lui/lei stess*.
Se da bambino invece hai avuto un attaccamento ambivalente, ovvero tendevi a voler fonderti con la mamma e a volerla amare ed essere ricambiato incondizionatamente, idealizzandola grandemente, credendola una creatura fantastica dispensatrice di amore e nutrimento, ma che diventava un’arpia spietata quando non ti considerava e non rispondeva alla tue richieste perché indaffarata oppure presa da altro, e hai sviluppato per il/la caregiver quindi sentimenti di amore e risentimento allo stesso tempo, sei probabilmente diventato un carattere appiccicoso ambivalente e quindi stanzi nell’area dell’Emozione.
Se da bambino invece hai avuto un attaccamento evitante, ovvero tendevi a non ricercare la vicinanza fisica del caregiver costantemente, perché ritenevi che il tuo caregiver non fosse sempre una sicurezza e che non riuscisse sempre a rispondere alle tue necessità, anzi a volte ti sentivi pure in pericolo vicino a lui o a lei, introiettando un’idea del mondo e delle persone come potenzialmente pericolose e non del tutto affidabili, apprendendo che stare ad una certa distanza dalle persone sarebbe stato più prudente e preferibile, allora sei probabilmente diventato un carattere evitante e quindi appartenente all’area del Pensiero.
4. Cosa è il carattere
Il carattere è una cristallizzazione di alcuni stili comportamentali appresi, che ripetiamo continuamente in un loop infinito perché ci fanno sentire sicuri e si appiccicano alla nostra identità. Con questo voglio dire che la maggior parte di noi vive essendo convinta di essere in un certo modo specifico, di possedere un carattere in cui si riconosce (con specifiche caratteristiche affini, ad esempio “sono timid”, “sono permalosi”, “sono sempre nei mie pensieri e non agisco mai”, “sono impulsiv”), cioè di essere quella precisa persona che si comporta così da sempre e che lo farà per sempre, come se fosse condannati all’immobilismo e alla perennità.
Invece il carattere è uno stile comportamentale che abbiamo appreso e che fin da bambini si è rivelato positivo per le nostre vite e le nostre relazioni: ci ha permesso fino ad ora di sopravvivere e ci ha aiutato a stringere alleanze e a fare la cosa più importante di tutte, ovvero, essere amat*. È come se fosse un’armatura, un vestito che indossiamo per vivere nel mondo, ma che potremmo cambiare a seconda del contesto e delle situazioni e che invece tendiamo a indossare schematicamente e acriticamente, facendolo diventare una camicia di forza.
Nessun carattere è migliore o peggiore di un altro: avere un carattere significa solamente possedere una specializzazione in uno specifico comportamento. Nella dinamica dell’enneagramma, infatti, tutti i caratteri sono ricchi di potenzialità e, a seconda della propria evoluzione o involuzione, tendono verso un certo tipo di caratteristiche che possono essere sia positive che negative.
Carattere, appunto, porta con sé la definizione di Automatismo. L’automatismo è come quando impariamo a guidare un’auto: inizialmente lo abbiamo appreso mettendo insieme e in susseguirsi un numero preciso di movimenti e di fatti su cui porre attenzione che inizialmente ci sembravano scollegati e difficili da ricordare. Dopo un po’ che le pratichiamo, queste azioni diventano comportamenti sempre più appresi e normali, fino a quando non si trasformano in vere e proprie azioni spontanee, a tal punto che le persone possono guidare senza porci la minima attenzione. Ecco: l’automatismo è qualcosa che si fa senza pensare, che ci viene spontaneo, naturale per così dire. Ma non è per niente naturale, è solo stato appreso in precedenza, come leggere, contare o scrivere. Quando siamo nati non lo sapevamo fare, eppure adesso ci sembra così facile e banale.
Avere un carattere significa avere quello specifico automatismo che usiamo incondizionatamente ogni giorno, perché siamo esperti in quel comportamento, perché siamo bravi e non ci dobbiamo mettere nessuna attenzione o fatica, ci viene così bene che non ci dobbiamo più pensare, e possiamo mettere il pilota automatico.
5. A cose mi serve conoscere il mio presunto carattere
Allora nessuno può dirvi di che carattere siete oppure a che categoria appartenete: le categorie sono a mio parere del tutto fuorvianti e per la maggior parte dei casi pericolose e false. Il carattere, come le aree di appartenenza, dovrebbe essere inferito in modo intuitivo e sensoriale da ogni persona che volesse conoscere di più se stessa e, solo la persona stessa può riuscire ad avvicinarsi di più alla “verità”, se così si può chiamare, perché nessuno, intendo proprio nessuno (neanche vostra madre) vi conosce come voi stessi.
Inizialmente potremmo essere anche molto confusi, e saltellare da un’area all’altra, ma questo non è affatto un problema, anzi, probabilmente, ne è la forza. Provare a indossare numerosi caratteri, sentire se ci stiamo comodi oppure no, calzare le spoglie di qualche altra personalità, non ci permette altro che di sperimentare i nostri limiti e le nostre potenzialità, per esplorarci, perché, finché non abbiamo esperienza di come ci muoviamo nei panni degli altri, come facciamo a sapere se ci piace oppure no?
Provare a capire che carattere mi calza sufficientemente bene mi serve per scoprire dove inciampo nella mia vita di tutti i giorni, quali sono le mancanze e i blocchi che mi si pongono davanti quando parlo con il mio capo, oppure quando ho litigato con il/la mi* compagn* e non riesco a capire perchè quel litigio mi ha dato così tanto sui nervi. Conoscere dove vado a sbattere la testa tutte le volte, come una mosca che cerca di uscire all’esterno ma incontra inesorabilmente il vetro della finestra, mi permetterà di diventare consapevole di me, di come vedo il mondo e di come mi relaziono a questo e sarò quindi poi liber* di decidere di continuare a fare come ho sempre fatto, oppure di cambiare strada, di provare modi alternativi di affrontare la realtà che mi si pone davanti e che sarà sicuramente diversa dalla realtà che dovevo affrontare 20 anni fa.
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