La Prigione Della Sensibilità: Il Dramma del Bambino Dotato e la Ricerca del Vero Sé

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Articolo scritto dalla Dr.ssa Alessandra Gaffo

“Non possiamo cambiare neppure una virgola del nostro passato, 

né cancellare i danni che ci furono inflitti nell’infanzia. 

Possiamo però cambiare noi stessi, […] 

riacquisire la nostra integrità perduta” (Miller, 2019, p. 9) 

In questo articolo affronterò il tema dei “bambini dotati”, dotati di sensibilità a cogliere i segnali inconsci dei bisogni altrui, che si sono adattati per ricevere amore, quell’amore all’epoca indispensabile, sviluppando un “Falso Sé”. Quei bambini che hanno rinunciato ad esprimere i loro VERI bisogni e che hanno perso la chiave della prigione in cui hanno dovuto chiudersi per sopravvivere. 

1. Il Falso Sé: tendenza ad apparire come gli altri si aspettano

Quando la Miller parla di “Falso Sé” intende quelle persone che si limitano ad apparire come gli altri si aspettano, che si identificano totalmente con i sentimenti che mostrano. Persone che non potendo vivere il proprio Vero Sé hanno reciso l’elemento vitale, spontaneo di sé. Persone che percepiscono un senso di vuoto e di assurdo, la mancanza di un punto di riferimento. Un vuoto reale, che ha a che fare con “uno svuotamento, un impoverimento e una parziale eliminazione delle proprie possibilità” (p. 19). 

Spesso non si vuole sapere nulla della propria storia e non ci si accorge che, in fondo, ne siamo continuamente influenzati. Non ci si rende conto che si sta temendo ed evitando pericoli che una volta erano reali, ma che ora, ormai da tempo, non lo sono più. Ci si costruisce delle illusioni perché la verità appare insopportabile. Eppure questa è talmente indispensabile che se ne sconta la perdita con gravi malattie.

Per nascondere ai propri occhi la verità, si continua a non avvertire la disperazione provata da quel “bambino tormentato” che si è stati, nascondendo il dolore a sé stessi, cosa che si è dovuta imparare presto. 

Si diventa così “in perenne fuga”, continuamente “sotto pressione, per non lasciar emergere la noia, […] per non concedere neppure un secondo alla quiete, in cui [si] potrebbe percepire la bruciante [e profonda solitudine, dell’abbandono di quando si era bambini, emozione che si teme] più della morte, a meno che non [si] abbia avuto la fortuna di apprendere che il riaffiorare dei sentimenti infantili e il loro diventare coscienti non uccide, ma libera” (pp. 10-11).

Con solitudine e abbandono, non si intendono solo le dolorose esperienze di evidente stato di abbandono. L’autrice si riferisce infatti a situazioni di infanzia “felice e protetta”, di persone che descrivono i propri genitori come comprensivi, di persone con grandi talenti, spesso “lodate per le loro doti e per i risultati raggiunti; [capaci di] mantenersi asciutti già a un anno, […] capaci di prendersi cura dei [fratelli minori tra l’anno e mezzo e i cinque anni] […] l’orgoglio dei genitori” (p. 12). 

2. Senso di vuoto e autoalienazione: una crescita con bisogni inascoltati

Eppure, dietro quelle capacità di raggiungere successi, dietro l’ammirazione tanto ricercata, si nasconde una sensazione “di vuoto, di autoalienazione, di assurdità della propria esistenza” (p. 12), di estraneità verso sé stessi, che riemerge appena fa capolino il sospetto di aver tradito una qualche immagine ideale di sé

Le persone che hanno sviluppato un Falso Sé sono persone sensibili, introspettive e capaci di immedesimarsi negli altri. Eppure con sé stessi manca il rispetto: il controllo su ogni aspetto della propria vita, la pretesa di fornire massime prestazioni con disprezzo, sarcasmo e cinismo verso di sé. Manca una comprensione autentica, emotiva, di quella che è stata la propria infanzia, che non viene presa sul serio. Si finisce così per ignorare i propri veri bisogni che non vengono soddisfatti nonostante gli sforzi per ottenere il massimo rendimento.  

Questi bambini “dotati” hanno colto i bisogni dei genitori a cui è mancato a loro volta un ambiente affettivo che consentisse di svilupparsi in modo autentico, con qualcuno che si interessasse totalmente a loro, che li capisse fino in fondo prendendoli sul serio. Il bambino avverte il bisogno profondo della madre, mai soddisfatto, e rinuncia a esprimere le proprie esigenze sviluppando invece quegli atteggiamenti di cui la madre ha bisogno. Per conformarsi alle sue aspettative, deve rimuovere il suo bisogno di amore, attenzione, comprensione, sintonia. “Deve anche reprimere le sue reazioni emotive ai pesanti rifiuti che riceverinunciando a vivere alcuni sentimenti (come la gelosia, l’invidia, l’ira, l’abbandono, l’impotenza, la paura) per non ferire i genitori, renderli insicuri (p. 16). Il bambino “può viverli solo se c’è una persona che con questi sentimenti lo accetta, lo comprende e lo asseconda [senza] rischiare di perdere l’amore della madre” (p. 17). In alternativa, deve rimuoverli. 

Eppure questi sentimenti restano custoditi, e si ripresenteranno senza che però, a quel punto, sia più comprensibile il contesto originario. 

“Vivevo in una casa di vetro dentro la quale mia madre poteva guardare in qualsiasi momento. In una casa di vetro non si può nascondere nulla senza tradirsi; unica eccezione: sotto il pavimento. Poi però, neppure io vedo ciò che vi è nascosto” (p. 26).

3. I meccanismi di difesa e la prigionia del vero sé

Per sopravvivere alla sofferenza, alla disperazione di essere stati abbandonati, vengono messe in atto delle difese come:

  1. la negazione dei propri bisogni e la negazione di essersi adattati ai bisogni dei genitori;
  2. La ricerca di soddisfacimenti sostitutivi (e mai sufficienti) per soddisfare i bisogni rimossi 
  3. la somatizzazione nel corpo 
  4. la “grandiosità”, per cui si compie in modo eccellente tutto per essere ammirati; l’autostima viene radicata al possesso di determinate “qualità, funzioni e prestazioni che all’improvviso [però] possono scomparire” (p. 45). 

Dietro all’orgoglio per il bambino si cela […] la vergogna qualora questo bambino non soddisfi le attese risposte in lui” (p. 44). 

Il bambino, poi adulto, si trova quindi a doversi arrabattare continuamente per ottenere ammirazione senza mai potersi permettere di essere così com’è.

  1. la depressione. Ad un certo punto ci si accorge che quel successo tanto ricercato era servito solo da sollievo momentaneo e non potrà mai offrire appagamento perché “il tempo giusto è irrimediabilmente passato” (p. 46). “L’antica ferita [quindi] non può guarire finché viene negata in maniera illusoria” (p. 47). La depressione quindi porta in prossimità della ferita, diventa un segnale della perdita del Sé, della negazione delle proprie sensazioni, movimento all’epoca necessario alla sopravvivenza, alla paura di perdere l’amore. La depressione può però diventare un modo per trattenere le tante emozioni celate, che si preferirebbe non provare per non disilludersi dall’immagine ideale di sé.
  2. il disprezzo verso l’altro, “la miglior protezione contro l’emergere dei propri sentimenti di impotenza” (p. 79). L’autrice illustra negli ultimi due capitoli del libro il “circolo vizioso del disprezzo” che può nascere dall’aver subito una mortificazione, una mancanza di rispetto per i propri bisogni derisi. Il bambino umiliato, se non si permette di sentire quanto ha sofferto diventerà un adulto che riprodurrà lo stesso modello sul figlio, adottando meccanismi rivolti a rovesciare la sofferenza passiva in comportamenti attivi Ma “chi è in grado di prendere sul serio i propri sentimenti, non potrà prendersi gioco di quelli altrui” (p. 113).

4. La Psicoterapia: una chiave per uscire dalla prigione del Falso Sé 

Scoprire la nostra personale verità necessita di un lungo processo che “prima di donarci un nuovo spazio di libertà, fa sempre soffrire.” Si tratta di una “strada impervia” che ci offre però la possibilità di abbandonare “la prigione invisibile” che è stata costruita nell’infanzia e di “trasformarci, da vittime inconsapevoli del passato, in individui responsabili che conoscono la propria storia e hanno imparato a convivere con essa” (p. 9).

La psicoterapia consente di smascherare il passato, il contesto originario di alcuni sentimenti oggi incomprensibili.

La psicoterapia “non ci può [certo] restituire l’infanzia perduta, non può modificare i fatti o annullarli. Le ferite non si guariscono grazie a illusioni” (p. 21). 

La conoscenza e l’esperienza vissuta della propria verità rendono però possibile il ritorno al proprio mondo affettivo, alla nostra vitalità. Si arriva a comprendere che “tutto ‘l’amore’ che si era conquistato con tanta fatica, e a prezzo della rinuncia a esprimere sé [stessi], non riguardava affatto [ciò che si] era in realtà: l’ammirazione [non era attribuita] al bambino reale” (p. 21). È stato amato quello che si fingeva di essere, il bambino “educato, coscienzioso, capace di mettersi nei panni degli altri, comprensivo, il bambino comodo, che in fondo non era affatto un bambino […]” (p. 21).

5. La “perdita” di un’infanzia felice e l’elaborazione del lutto

Emerge così un “profondissimo lutto”, una sofferenza da tempo rimossa ma a cui segue l’empatia verso sé stessi, la possibilità di prendere sul serio i propri sentimenti. La persona si sente alleggerita nel percepire in sé stessa cose che fino a quel momento era abituata a soffocare per proteggersi. “[…] si viene sorpresi da sentimenti che si sarebbe preferito non percepire, ma ormai è troppo tardi” (p. 23). Ci si accorge così che si cercano disperatamente distrazioni. È “una grossa umiliazione scoprire di non essere soltanto buoni, comprensivi, generosi, controllanti e soprattutto privi di esigenze. […] Ma […] dobbiamo abbandonare questo edificio di autoinganni se vogliamo davvero stare meglio” (p. 24). Rivivere, chiarire e legittimare questi intensi sentimenti consente di conoscere profondamente la propria storia e riappropriarsi di sé stessi. 

Perciò solo il vivere il lutto per ciò che si è perduto, accettando la verità della propria infanzia, consente di rimarginare realmente quella ferita

Il lutto consiste nel rinunciare all’illusione di aver avuto un’infanzia “felice” e di percepire le ferite sofferte. Il lavoro del lutto permette di ritrovare la propria identità, liberandosi dalla fatica di mostrare il “personaggio ammirabile” e sempre così capace. 

Questo fa provare un profondo sconvolgimento, che consente però di avvertire il desiderio di smetterla di “corteggiare” l’altro e scoprire in sé stessi il bisogno di vivere il proprio Vero Sé, la libertà di riuscire a vivere i sentimenti che affiorano spontaneamente. 

Il prigioniero ha “la possibilità di lasciare la cella e di trascorrere forse la prima notte senza protezione e affamato, ma in libertà” (p. 64).

Diviene infatti possibile vivere i propri sentimenti. Diventa possibile sentire la tristezza, la disperazione, il bisogno di aiuto “senza dover temere per questo di aver reso insicuro qualcun altro” (p. 39). Diventa possibile spaventarsi se ci si sente minacciati, diventare cattivi se non si riesce a soddisfare i propri desideri. Diventa possibile non solo sapere quello che non si vuole, ma anche ciò che si vuole, potendolo esprimere “senza preoccuparsi di venire amato o odiato per questo” (p. 39).

Vivere intensamente le emozioni [e legittimarsele] è un’esperienza liberante […] [perché] ci apre gli occhi di fronte ai fatti reali, ci libera dalle illusioni, ci restituisce ricordi rimossi e spesso fa scomparire i nostri sintomi” (p. 114).

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