Articolo scritto dal Dr. Antonello Carraca
“È stata la mano di Dio” è il primo film dichiaratamente autobiografico del regista napoletano, Paolo Sorrentino, premio Oscar nel 2014 per il film “La Grande Bellezza”.
Nonostante la componente autobiografica, i fatti narrati sono romanzati e non corrispondono totalmente all’andamento delle vicende personali dell’artista nella realtà. Il tema della realtà romanzata sembra appunto essere centrale nella poetica alla base della pellicola, la “realtà è scadente” agli occhi dell’artista e del giovane Fabietto Schisa, protagonista del film ispirato al giovane Paolo Sorrentino, il cinema e l’immaginazione invece sono di gran lunga più accattivanti e probabilmente più simili al reale modo che hanno gli avvenimenti della nostra esistenza di strutturarsi nelle nostre tracce mnemoniche e nella nostra auto-narrazione.
Questo lo sa bene chiunque nella sua vita personale e/o professionale si sia trovato a partecipare a delle sessioni di Psicodramma, siano esse condotte in un setting bipersonale o di gruppo, nelle quali, la semi realtà psicodrammatica appunto, pur mantenendo la qualità emotiva del reale da la possibilità ai protagonisti di muoversi tra passato, presente e futuro, creare metafore e storie che hanno un significato biografico, che dalla storia dell’individuo nascono e si compongono ampliando le sue possibilità di autonarrazione, strutturando e ristrutturando gli eventi relazionali presenti nelle tracce mnemoniche, connettendosi tra loro grazie alle indicazioni di quelle reazioni biochimiche chiamate “emozioni” piuttosto che alle indicazioni dell’aderenza ai fatti accaduti, della logica e della razionalità.
Procedendo per gradi, il titolo scelto da Sorrentino possiede un alto valore simbolico e nasce da una dichiarazione di Diego Armando Maradona, che dopo un gol segnato di mano in una finale di Coppa del Mondo, vinta dall’Argentina contro l’Inghilterra, dichiarò ironicamente che la mano colpevole di aver spinto in porta il pallone era stata quella di Dio. Erano gli anni del trasferimento a Napoli di quello che era considerato uno dei più forti giocatori del mondo, che a Napoli si confermò tale, anni nei quali il talento e il carisma del fuoriclasse argentino, abbinati ad una certa tendenza all’esoterico, allo scaramantico e al mistico della cultura partenopea, trasformarono quello che prima era semplicemente un grande giocatore in una sorta di Messia capace di miracoli che andavano oltre le qualità espresse sul campo da gioco.
Ed ecco come il mistico, la meraviglia e la spensieratezza della giovinezza rappresentino la chiave di lettura caratterizzante tutta la prima parte del film nella quale il giovane Fabio Schisa, chiamato da tutti Fabietto, aspetta l’arrivo del Messia nella sua squadra del cuore – cosa che sembrava impossibile anche solo da pensare ai tempi -, ascolta e crede ai racconti della bellissima e fragilissima Zia Patrizia su ipotetici incontri con San Gennaro e il “monaciello”, vive la sua città e la sua famiglia circondato da una serie di personalità eccentriche che ben raccontano una parte importante del popolo e dei valori della Napoli di quegli anni.
1. Daemon, Trauma e Nascita Psicologica di un Individuo
Quella che Sorrentino racconta è la storia di un Daemon, di un demone vocazionale (costrutto ben descritto da Hillman in Il codice dell’anima, 1996) che nasce con l’individuo e prende forma a partire da un trauma profondo che trasforma radicalmente la vita del protagonista e gli indica la via per la creatività, per rintracciare nuove risposte a stimoli nuovi e non rifarsi a copioni cristallizzati di ruoli, comportamenti e narrazioni che potrebbero soffocarne il respiro evolutivo.
Prima un litigio tra i genitori che porta alla luce un passato di infedeltà del padre e una profonda fragilità della madre, poi l’evento che segnerà per sempre, più di qualsiasi altra cosa, la vita di Fabio, che nella realtà si chiama Paolo Sorrentino, ma la realtà è scadente, meglio quindi continuare con la storia di Fabietto.
La realtà si presenta nella vita del sedicenne Schisa con tutta la sua violenza e tutto il suo “cattivo gusto”, quando i genitori muoiono asfissiati da una perdita di monossido di carbonio nella loro casa di Roccaraso. Fabio doveva essere lì, ma non andò perchè il Napoli giocava in casa quella domenica e non poteva perdersi lo spettacolo del Messia. Fù la passione giovanile per il calcio e il miracolo di Maradona al Napoli a salvarlo, fù la mano di Dio.
Allora il Daemon che già prima del trauma mostrava le sue inclinazioni a scegliere sempre il quasi reale rispetto al reale, l’indefinito rispetto al precostituito e il sottofondo musicale delle sue band preferite ascoltate dalle grandi cuffie del walkman piuttosto che gli schiamazzi della gente attorno (Sorrentino ricorda spesso nelle interviste la sua passione per i Talking Heads), si palesa e indica la via per il cambiamento, per l’evoluzione, per la separazione da ruoli e copioni adolescenziali e l’individuazione con ruoli adulti che abbraccino la vocazione del Daemon. Il cinema come direzione, la regia come mezzo per creare immagini e fotografie che possano “dribblare” come il Messia la “realtà scadente” e continuino a saziare la fame di immagini e fotogrammi di Fabietto così frustrata, castrata, mortificata davanti alle porte di un Pronto Soccorso, porte che non si aprono e non si apriranno. Al giovane Fabietto Schisa sarà impedito di vedere i corpi dei suoi genitori, perché i dottori dicono che “è meglio così”.
La placenta della meraviglia adolescenziale viene disintegrata e il giovane viene al mondo per osservare la mediocrità e la violenza del reale, accettare tale passaggio e separarsi dall’inconsapevolezza precedente è un compito di sviluppo imprescindibile, non perdere la capacità di immaginare ed inventare realtà meno scadenti lo è altrettanto.
2. La visione di Moreno del benessere e di Fabio
Jacob Levy Moreno e tutti i suoi successori della scuola di Psicodramma Classico (tra i quali possiamo citare Giovanni Boria ed Ottavio Rosati, padri dello Psicodramma Classico o Moreniano in Italia) definiscono il benessere psicologico come una condizione nella quale le esigenze intrapsichiche riescono a trovare un dialogo ottimale, compenetrandosi, con le richieste dell’ambiente grazie ad una possibilità di azione spontanea e creativa nei propri ruoli di vita.
Nel caso di Fabio le conseguenze della perdita dei genitori rappresentano delle richieste ambientali insopportabili, ma la possibilità di utilizzare il cinema e il ruolo di regista (evoluzione del ruolo adolescenziale di “osservatore”) come “auto-terapia” per promuovere un agire creativo che permetta un dialogo tra esigenze intrapsichiche – salvaguardare la spensieratezza dell’adolescenza e l’immagine “mistica” dei suoi genitori – e le richieste ambientali – il bisogno di crescere ed affrontare la tragedia capitata – offrono al giovane la possibilità di un sguardo verso il futuro, come la scoperta ingenua del sesso grazie alla baronessa del piano di sopra.
La visione di questo film mi ha da subito riportato al valore evolutivo del trauma, della sofferenza e della frustrazione. Il trauma, anche quando devastante e mortale come quello raccontato nel film, è sempre connesso ad una nascita, dopo il trauma non si è più li stessi, da ciò che si era si è chiamati a separarsi per nascere come Individui. Rappresenta infatti un trauma generativo il parto stesso attraverso il quale ogni individuo viene al mondo; Sono traumi necessari tutti quei momenti di separazione dalla figura di attaccamento che fanno sperimentare al lattante un profondo senso di abbandono e vulnerabilità, poiché ancora incapace di auto consolarsi mentalizzando la presenza del caregiver anche quando non presente fisicamente; Sono traumi generativi tutti quei passaggi di sviluppo come il primo giorno di asilo, di scuola ecc…; L’adolescenza nel suo complesso rappresenta un agglomerato di traumaticità attraverso le quali il giovane può emergere come individuo separato dai modelli e stereotipi idealizzati presi in prestito per sopravvivere al fatto di avere completato lo sviluppo della parte emotiva del cervello (Sistema Limbico), ma avere ancora poco evoluta e strutturata Neocorteccia (parte del Sistema Nervoso Centrale deputata alla dotazione di senso e significato agli eventi, soprattutto quelli emotivamente significativi).
Ecco come lo sceneggiato di Sorrentino ci racconta una storia dove il trauma devasta la vita di un giovane, la riempie di sofferenza, ma gli offre la possibilità di separarsi in modo creativo, individuandosi in una scelta – quella di andare a Roma per fare cinema – che protegge, pur separandosene, la meraviglia, la spensieratezza e la misticità della fase precedente di vita.
3. Realtà fenomenica e Semi-realtà psicodrammatica
Nella realtà Sorrentino non parte subito per Roma, anzi rimarrà ancora molti anni a Napoli per poi migrare verso la capitale prima e poi verso Hollywood. Altra differenza tra fiction e realtà è quella che riguarda l’incontro con il regista Antonio Capuano, forse il momento più epico del film. Capuano infatti diventa un regista conosciuto molto dopo la morte dei genitori di Sorrentino, l’incontro con Paolo avverrà anni dopo, ma la realtà è scadente e perciò Sorrentino ha voluto far incontrare il giovane Fabietto, quindi se stesso a sedici anni, con quello che diventerà successivamente uno dei suoi mentori principali, dando il compito a questo incontro “semi-reale” di mostrare al pubblico una vera e propria scena psicodrammatica nella quale un conduttore (Capuano) incalza il protagonista (Fabietto), amplificando l’emozione del giovane, aiutandolo ad arrivare in fondo alla sua emozione, a palesare il Daemon vocativo, fino al momento della Catarsi: “Quando sono morti, non me li hanno fatti vedere”. Solo a questo punto lo Psicodrammatista Capuano smette di incalzare il giovane protagonista e con tono più calmo, ma comunque fermo, dice: “Non ti disunire Fabio”, il giovane risponde: “Mi chiamano Fabietto” e allora Sorrentino si sveste e dona un esempio emblematico di ciò che in psicologia si intende con il concetto di “Separazione-Individuazione”, lo fa attraverso la risposta di Antonio Capuano: “Bisogna che inizi a farti chiamare Fabio”.
Immagino che questo “Insight” nella vita del regista sia avvenuto più tardi, non nel periodo immediatamente successivo all’evento traumatico e non ad un’età così giovane, ma come lui stesso suggerisce, spesso la realtà è scadente e non coglie i significati profondi degli avvenimenti, va sempre edulcorata di immaginazione e di vocazione mistica, impedendo che i significati della nostra esistenza siano semplici resoconti razionali, ma opere d’arte guidate da un tessitore sensibile e capace di far dialogare la realtà esterna con quella interna, perché le emozioni raccontano una realtà che è tutto fuorché scadente.
In conclusione, mi piace ricordare che l’espressione “Non ti disunire” è utilizzata da Capuano e da Sorrentino in riferimento ad una terminologia calcistica. Infatti nei momenti di difficoltà, durante una partita di calcio, gli allenatori, ma anche i giocatori più carismatici delle squadre sono soliti incitare e consigliare i propri compagni, e se stessi, con l’esclamazione “Non disuniamoci!”, che potrebbe essere tradotta come, “Siamo in difficoltà, ma adeguiamoci senza perdere la nostra identità”.
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