Articolo scritto dalla Dr.ssa Francesca Romana Chiricozzi
Nel pensiero collettivo c’è la tendenza a credere che solitudine e isolamento siano due condizioni analoghe che identificano, entrambe, un comportamento di chiusura, caratterizzato da sentimenti negativi (tristezza). Gli studi sull’argomento hanno chiarito il significato di questi termini, evidenziando notevoli differenze tra i due atteggiamenti, e identificando la presenza di uno stato di equilibrio nella prima che invece non si avrebbe nella seconda. (Buchholz & Marben, 1999; Katz & Buchholz, 1999; Russell, Zakalik, 2005; Wei, Shaffer, Young, Zakalik, 2005)
1.Differenza tra solitudine e isolamento
La solitudine (alonetime) e l’isolamento sono condizioni che connotano stati d’animo molto differenti. Se la solitudine è definita dalla relazione con l’altro, l’isolamento è caratterizzato da una dimensione ‘uniena’, senza l’altro.
Più nel dettaglio si ha che, in ogni esperienza di solitudine c’è una dimensione psicologica e una declinazione temporale, caratterizzata da apertura verso il futuro, l’avvenire, le attese e i progetti. Quindi, stando in solitudine si rimane comunque aperti al mondo delle persone, delle cose e al desiderio di mantenersi in una relazione significativa con gli altri (Buchholz, 1997, 2000; Hoff & Buchholz, 1996; Buchholz, 1999, 2000;). All’opposto, la condizione d’isolamento è contrassegnata dal fatto di vivere solo nel presente, senza rimandi al passato né proiezioni rivolte al futuro (Wiebe, Mc Cabe, 2002; Wei, Russell, Zakalik, 2005). Si potrebbe dire quindi, che l’isolamento, rispetto alla solitudine, è ciò che il mutismo è riguardo al silenzio. Ovvero, nel silenzio si può avere qualcosa da dire pur se non si ha voglia di dire nulla, mentre nel mutismo, essendo chiusi in se stessi, in una condizione di non relazione con l’altro, viene meno l’intento e quindi anche il piacere della comunicazione.
2. Essere con se stessi non e’ essere isolati
Essere soli, in assenza di altri, non ha lo stesso significato del sentirsi soli. Si può stare fisicamente soli perché non condividiamo spazi, pensieri, sentimenti con nessun altro se non con noi stessi. Questa condizione fisica però non necessariamente si accompagna ad uno stato interiore di solitudine (loneliness). In questo caso, viviamo uno stato interno, temporaneo o costante, che alimenta un sentimento, indipendentemente dalle condizioni esterne, dalla realtà della vita (alonetime) (Bucholz, 1997, 2000).
Lo stato dell’essere in solitudine di per sé non è necessariamente un fatto negativo, ma un modo di concepire il mondo.
L’essere in solitudine contempla il modo in cui noi percepiamo il tempo, il modo in cui noi lo riempiamo, scegliendo ciò che vogliamo vivere e far esistere nella nostra vita. Insomma, il modo in cui viviamo lo stato della solitudine è il riflesso della qualità del rapporto che abbiamo con noi stessi; ovvero quanto bene (o male) stiamo con noi stessi.
3. Si Puo’ stare bene con gli altri solo stando bene con se stessi
Essere capaci di vivere le relazioni sociali implica un certo grado di rinuncia verso se stessi. Per alcune persone la rinuncia ad occuparsi di se stessi raggiunge livelli molto elevati: si rinuncia quasi del tutto a se stessi per poter stare con gli altri. Fare questo significa che la presenza dell’altro diventa indispensabile nella nostra vita per colmare il disagio che viviamo nella relazione con noi stessi. Dunque la capacità di stare con sé e con gli altri sono strettamente relate: possedere una buona capacità di rapportarsi a se stessi implica una tendenza a stare bene in rapporto con l’altro, nel senso che si è in una condizione di equilibrio tra l’esigenza di tener conto dei propri bisogni e la disponibilità a rinunciarvi per ascoltare e accogliere quelli dell’altro.
In tali condizioni l’individuo è in grado di restare in armonia o in equilibrio psichico poiché è in relazione sia con sé che con le altre persone ma non perde la propria identità (e quindi il buon contatto con se stessi) quando è con gli altri.
4. Una sana relazione di dipendenza nell’ infanzia insegna a saper stare bene in solitudine da adulti
Saper godere della propria presenza (stare in solitudine) non è facile e non tutti riescono a perseguire tale obiettivo.
La capacità del saper stare in solitudine si acquisisce gradualmente. E’ un apprendimento che avviene nella primissima infanzia, quando s’impara ad interiorizzare le relazioni personali di primaria importanza, costituendo dei legami affettivi, interni. Imparare a fare questo, significa imparare a percepire la presenza emotiva dell’altro anche quando si è in sua assenza fisica: l’altro interiorizzato permane affettivamente, quindi simbolicamente, dentro di noi; la sua scomparsa fisica non annulla la sua presenza emotiva in noi, cosa che accade invece nelle fasi precocissime della nostra vita (Winnicott D, Sviluppo affettivo e ambiente, 1965)
Quando iniziamo a vivere nel mondo, infatti, la persistenza dei legami necessari a sopravvivere dipende dalla presenza reale, concreta dell’adulto, dal fatto che l’adulto sia percepibile con i sensi, innanzitutto con la vista. A questo livello, perdere di vista l’altro significa perdere il legame, e poiché questo è necessario per vivere, la conseguenza sarà un senso di vuoto, il terrore di perdersi. Se questa diventa una condizione ripetuta che si stabilizza, essa può marcare in modo indelebile la vita di un essere umano.
Tutti noi abbiamo assistito a certi pianti irrefrenabili e all’angoscia di alcuni bambini quando iniziano a frequentare l’asilo e quindi a essere separati dalla propria madre. La realtà della nostra condizione umana deve fare i conti con il fatto che veniamo al mondo in una situazione di estrema incompletezza: l’essere umano, per anni, permane in una condizione di dipendenza dall’adulto senza il quale non potrebbe sopravvivere. Per descrivere questa situazione, si usa il termine “neotenia”, che significa vivere un tempo piuttosto lungo affinché il nostro organismo si differenzi acquisendo a pieno la propria funzionalità, facendoci raggiungere piena autonomia fisica e psicologica. Insomma la nostra evoluzione verso la maturità è molto lenta e la capacità di diventare progressivamente sempre più autonomi emotivamente significa imparare a vivere la rinuncia di una dipendenza dall’altro (processo di separazione) a vantaggio della nostra identità.
Fare ciò implica vivere stati di tensione emotiva più o meno intensi. Infatti, se l’acquisizione dell’autonomia è desiderata e ricercata da un lato, dall’altro essa si accompagna all’ansia di perdere un appoggio sicuro e un riferimento emotivo.
Il vantaggio della separazione, della rinuncia alla contiguità totale dei primi tempi di vita, consiste nella certezza di sentirsi esistere anche in caso di assenza materiale di un oggetto di riferimento, senza cioè avvertire la necessità di una sua presenza concreta, sensoriale, costante, continua.
È necessario che la situazione di unione originaria faccia il suo tempo affinché si possa vivere la propria solitudine come una condizione possibile e non, o non solo, come fonte di angoscia e di sofferenza.
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